LA RESISTENZA: MITO UNIFICANTE PER GLI ITALIANI?                     


IL TRIANGOLO DELLA MORTE NELL'OLTREPO' PAVESE - stralci (da LOTTE E SANGUE DELLA REPUBBLICA SOCIALE NELL'OLTREPO' PAVESE)
Vasco Nannini
 
 
L'Ora di Caino: dopo la "Liberazione" il Bagno di Sangue
    Inizia la "caccia al fascista". A Varzi, Voghera, Zavattarello, Stradella, Pietragavina, Broni, in tutto il Nord si costituiscono i sedicenti "Tribunali del Popolo".
    Dalle aule di giudizio sistematicamente viene tolto il Crocifisso, è il nuovo corso che si vuole dare alla Nazione, simbolicamente è sostituito dalla vittima inquisita.
    I testimoni a carico si sprecano, se qualcuno si azzardasse a difendere l'imputato anche lui sarebbe inquisito.
    Le sentenze sono sempre le solite:
    "Condanna a morte - fucilazione alla schiena".
    È sufficiente sapere che sia un "fascista".
    A pensarci bene anche gran parte dei giudicanti sono "ex fascisti".
    Il condannato viene portato sul "luogo del martirio" fra due file di popolo urlante che lo insulta e lo malmena.
    Alla esecuzione si assiste come a una festa. Sono presenti anche donne e ragazzi.
    Altrettanto accadeva ai "roghi" della "Santa Inquisizione".
    Talvolta vengono uccise persone che con il fascismo non hanno avuto niente a che fare. Basta una delazione, un rancore, un odio personale. Eppure l'Oltrepo Pavese è costituito di piccoli centri (1.000-5.000 abitanti) in cui tutti si conoscevano, si stimavano e si salutavano fra di loro.
Le donne, davanti alle quali ogni popolo o convivenza civile arresta i propri livori perché generatrici della vita e depositarie dei suoi valori spirituali, non furono risparmiate dalla brutalità dei cosiddetti "liberatori" con tanto di fazzoletto rosso al collo.
    Le figlie di Fiorentini, messe nude in una gabbia ed esposte al ludibrio della folla inferocita, furono uno dei tanti episodi di violenza inaudita.
    È stata una delle pagine più vergognose della storia d'Italia e del genere umano.
    Dopo tali fatti erano giustificati coloro che dicevano: "Mi vergogno di essere italiano". Ci fu il ritorno all'"Homo Lupus". Venti secoli di civiltà furono annullati.
    Donne portate alla berlina o al supplizio con i capelli rasati a zero, coperte di lividi ed ecchimosi sanguinanti.
    Donne indifese, oggetto di stupri e violenze di ogni genere prima della fucilazione. Ragazze esuberanti di gioia di vivere, esemplari madri di famiglia colpevoli solo di essere ausiliarie, donne fasciste, donne di fascisti oppure, come talvolta accadeva, solo donne oggetto di desideri da parte di bruti che si avvalevano della stella rossa che portavano sul berretto. (Le Soldatesse di Mussolini - Ed. Mursia)
    Dopo il tragico Aprile '45 il movimento partigiano si quintuplicò.
    Coloro che "stavano alla finestra" si dichiararono partigiani e scesero in piazza anche loro. Una parte delle atrocità sopra citate furono compiute da quei "nuovi resistenti".
 
 
La Vita Continua
    Come dopo una tempesta, un cataclisma sui colli di Varzi, passati gli anni di caino, è tornata a gioire la vita con le sue eterne costanti.
    Escluso le cerimonie ufficiali, nel rispetto di tutti i caduti, si cerca di dimenticare la "sagra dell'odio".
    Domina l'omertà, si vuole dimenticare, subentra la meditazione e la constatazione. Forse il rimorso. Gli odi si placano. Le generazioni si susseguono rivolte al futuro, ad altri interessi. Purtroppo si è fatto di tutto per estirpare dai loro animi la sacralità della Fede, dell'Italia, della Patria. La bandiera tricolore viene sventolata con passione solo nelle competizioni sportive.
    Varzi, sita nel cuore delle valli dell'Oltrepo Pavese, è una cittadina ricca di torri medioevali, bagnata dal torrente Staffora dalle acque chiare e trasparenti che hanno ancora la freschezza della sorgente e dei boschi da esse attraversati. È nota per la lavorazione dei salumi apprezzati ovunque. Per il clima mite ed il cielo limpido è méta di turismo, specialmente milanese.
    Sul sovrastante monte Penice, ove fascisti e partigiani hanno duramente combattuto fra di loro insanguinando i suoi boschi, attualmente vi sono frequentate stazioni di sci e attrazioni invernali.
    Negli anni 1960, proveniente da Pisa, dopo un faticoso viaggio su una "500" attraverso i passi del Brallo e del Penice, arrivai a Ponte Crenna.
    Ero accompagnato da mio figlio dodicenne Walter e da un caro camerata che voglio ricordare su queste pagine: Iosse Pampana. Era sofferente perché portatore di handicap ad una gamba.
Domandai a un gruppo di persone, riunite davanti alla Chiesa del paese all'uscita della Messa, se potevano darmi notizie circa "quattro militari uccisi in quel paese su un camion che portava impressi i segnali della Croce Rossa".
    Notai in loro un certo imbarazzo, nessuno sapeva nulla. Il gruppo si dileguò immediatamente.
Rimase solo una signora, vorrei dire una coraggiosa signora. Mi indicò una croce costituita da due canne incrociate e mi disse: "In quel posto hanno ucciso i militari che cercava".
La croce di canne, con l'autorizzazione delle autorità comunali di Bagnaria, alle quali rinnovo la mia stima e gratitudine, fu sostituita con una di marmo rispettata da tutti. Da quel giorno è divenuta méta di pellegrinaggi di commilitoni e cerimonie austere in cui ogni intolleranza o faziosità è bandita.
Essa è stata eretta in memoria di tutti i caduti in Val Staffora e nell'Oltrepo Pavese.
 
 
Per i Superstiti la Medievale "Morte Civile": Persecuzioni, Galera, Epurazioni
 
    Anno 1946. Voghera
    Per le umiliazioni subite e gli stenti muore il dott. Armando Uberti, prestigiosa figura di combattente e amministratore.
    Tenente degli Alpini, viceprefetto dell'Oltrepo Pavese durante la RSI, superò mille difficoltà provocate dalle terroristiche incursioni aeree e dalle azioni partigiane per fornire i viveri alla popolazione.
    Era un incarico più che arduo in quel periodo, fece di tutto per assolverlo nel migliore dei modi nonostante le difficoltà sopra citate.
    Oltre a lui fu epurata la sorella Onorina, la quale dell'insegnamento ai suoi scolari ne aveva fatta una missione. Il suo amore verso di loro era ricambiato. In lei riviveva la maestrina "con la penna rossa" del libro "Cuore" di De Amicis. Sua gravissima colpa: "Avere insegnato ai ragazzi ad amare la Patria". Per il dolore morale morì poco dopo.
    Una via della cittadina dell'Oltrepo Pavese era intestata al nome di un loro fratello, valoroso caduto della 1a guerra mondiale. L'intestazione fu "epurata". Il cognome dell' "untore" Uberti di manzoniana memoria doveva scomparire per sempre da Voghera.
    Le uccisioni dei civili spesso avvenivano su segnalazione dei paesani della vittima per rancori personali o da parte di ex fascisti che intendevano "riabilitarsi".
    Mi permetto citare un fatto personale: su indicazione di vicini di casa, ex "fascistoni", i partigiani insistevano per sapere dove era mio fratello Walter, partito volontario nella RSI. Purtroppo i loro compagni avevano già "fatto giustizia" al Nord.
    A Pisa viene epurato Amedeo Nannini, mutilato della prima guerra mondiale, stimato impiegato delle FF.SS., padre di un "repubblichino" caduto nell'Oltrepo Pavese. All'angoscia del figlio che "non tornava" si aggiungeva la tragedia economica di dover mantenere due figli minorenni venendogli a mancare l'unica fonte di guadagno.
    Del ritorno del figlio si "preoccupavano" anche i partigiani locali dicendogli: "Se non hanno fatto giustizia al Nord, quando torna ci pensiamo noi!".
    Successivamente alcuni di loro sono finiti in galera per reati comuni.
    Fu riassunto alcuni anni dopo. Nonostante le avversità e i dolori non si arrese. Raggiunse il grado di sottocapostazione di Pisa Centrale. Morì di tumore. Con la moglie, recentemente deceduta, e il figlio diletto riposa nel cimitero di S. Ermete (Pisa) in attesa della resurrezione in Cristo.
 
 
LOTTE E SANGUE DELLA REPUBBLICA SOCIALE NELL'OLTREPO' PAVESE Vasco Nannini 1998 Edito in proprio Per ricevere il volume richiederlo a: Vasco Nannini (tel 050-44059), Vicolo delle conce 25, PISA

LA FUCILAZIONE DI FIORENTINI (da LOTTE E SANGUE DELLA REPUBBLICA SOCIALE NELL'OLTREPO' PAVESE)
Vasco Nannini
 
 
    Dalla Pubblicazione: "Zavattarello Pagine di Vita e di Storia"
    Il 29 aprile 1945, un reparto della Brigata Matteotti, nel corso di un rastrellamento, catturò il ten. colonnello Fiorentini. Tradotto a Stradella, il capo della "Sicherheit" venne condotto a Milano a disposizione del Comando Volontari Libertà (C.V.L.). Dopo un interrogatorio da parte del comandante della Zona operativa Oltrepo Pavese, "Edoardo" (Italo Pietra), Fiorentini, tradotto a Voghera, vi fu processato per direttissima da un tribunale popolare. Condannato alla pena capitale, verrà fucilato il 3 maggio in località Piane di Varzi, nello stesso punto in cui circa un anno prima aveva fatto fucilare tre giovani di Crociglia.
 
 
    Dal già ricordato volume di memorie, inedito in Italia, riportiamo ancora una volta la testimonianza di "Bill" (Ufficiale Inglese di Collegamento Partigiano nell'Oltrepo Pavese)
    Fiorentini si comportò con dignità ed io, non potendo aiutarlo, dovetti limitarmi ad ammirarlo. La "belva umana" (così veniva definito dai partigiani il comandante delle forze di polizia fascista) indossava un giaccotto bleu sbiadito ed un paio di pantaloni grigio-sporchi. I suoi capelli bianchi scendevano sul viso.
    Per pochi minuti camminò avanti e indietro sulla strada insieme con don Rino, il quale, per la prima volta nel corso della guerra partigiana, indossava il suo abito talare. Mentre camminavano, il prete lò confessò. Finita la confessione, Fiorentini espresse al cappellano gli ultimi suoi desideri. In particolare lo pregò di recare il suo affetto alla vecchia madre.
    Il momento dell'esecuzione si avvicinava. Tutti i partigiani presenti, circa cento uomini, volevano far parte del plotone. Dovetti usare la mia autorità per mantenere la disciplina. Gli uomini scelti per la fucilazione, come del resto tutti gli altri, erano equipaggiati nelle più varie fogge.
    Offrirono a Fiorentini una sigaretta ed un bicchiere di vino.
    Mentre il condannato stava fumando, Primula Rossa, manovrando il mitra, mi raggiunse dicendo chiaramente che intendeva comandare il plotone.
    Ben presto la sigaretta finì e Fiorentini fu condotto verso il luogo dell'esecuzione. Il bicchiere di vino rimase intatto sul bordo della strada.
    "Fucilazione alla schiena!" urlò Primula Rossa ordinando a Fiorentini di girarsi. Per un attimo l'anziano uomo espresse una grande emozione, poi si voltò verso don Rino e: . . "Vi imploro - esclamò - persuadeteli a spararmi al petto". Il prete indirizzò lo sguardo verso Primula Rossa e:  "Angelo - disse - ...per piacere..."
    Primula Rossa annuì e si diresse verso Fiorentini. Con segno di grande rispetto gli chiese se avesse un ultimo desiderio. Il fascista scrollò la testa, ma come Primula Rossa retrocedette verso il plotone già schierato, lo richiamò. "Lasciatemi dare l'ordine della mia esecuzione" implorò.
    Don Rino si interpose, ma il giovane comandante partigiano si irrigidì.
    A questo punto non potei fare a meno di intervenire.
    Primula Rossa rispose: "Va bene".
    C'era tanto silenzio intorno. Permaneva nell'aria quella fama di inflessibilità creatasi attorno a Primula Rossa durante tutto il periodo partigiano. Primula Rossa guardò negli occhi i suoi ribelli uno ad uno facendo capire che l'ora dei risentimenti stava per finire. Poi Fiorentini urlò: "Squadra! Pronti!". Una breve pausa, poi il vecchio fascista si scoprì il petto, i lineamenti del viso si distesero e "Viva l'Italia - urlò - Fuoco!"
    La morte fu certamente rapida. Giustizia era fatta.
    In altre occasioni io tenni sempre gli occhi bene aperti, ma in quel particolare momento, li chiusi.
    Combattere sulla montagna è una cosa, vedere l'esecuzione di un uomo è un'altra. Non avevo alcun dubbio circa la sentenza contro Fiorentini, ma non avrei voluto essere presente alla sua esecuzione. Sentivo un represso rimorso e, sebbene non credente, mi ritrovai mentre pregavo Dio perché la guerra era finalmente finita.
    La guerra è davvero finita.
    Come dopo un furioso temporale, che ha squassato il cielo di boati, fatto straripare i torrenti, lacerato gli alberi, anche su Zavattarello e l'alto Tidone le nubi si diradano lasciando posto a larghi squarci di azzurro.
 
 
    Le "Nostre" Testimonianze circa l'uccisione del colonnello Ing. Felice Fiorentini
    (da "Guerra Civile in Italia" di G. Pisano)
    Il colonnello d'Aviazione Felice Fiorentini, abitante nell'Oltrepo Pavese, con uomini male armati e pochi mezzi a disposizione seppe reggere l'invadenza delle bande partigiane che spadroneggiavano in Val Staffora, effettuò azioni di contrattacco per alleggerire la pressione nemica su Varzi.
    Fiorentini, proprietario della ferrovia elettrica a scartamento ridotto Voghera-Varzi, con il suo valore e conoscenza di quei luoghi riuscì a salvare il presidio militare dalla sopraffazione partigiana.
    Durante la "liberazione", accusato delle atrocità più infami, davanti al "tribunale del popolo" di Voghera non ha mai rinnegato la legalità delle sue azioni di controguerriglia e la sua fede fascista.
    La stessa accusa dovette riconoscergli un passato di persona integerrima e disponibile ad aiutare tutti coloro che si rivolgevano a lui.
    Dopo l'esecuzione la sua salma fu oltraggiata nella cappella mortuaria del Cimitero di Varzi dove era stata deposta.
    Prima della fucilazione fu messo in una gabbia, trainato nei vari paesi dell'Oltrepo Pavese ed esposto al ludidrio della folla inferocita. In un'altra gabbia furono messe le due figlie minorenni, Adriana e Nicoletta, nude. Ragazze esuberanti di vita, di una moralità integerrima come aveva imposto loro il padre, colpevoli solo di essere figlie di un fascista.
    Fu un'azione infame!
    Fiorentini volle comandare lui stesso il plotone di esecuzione.
    Prima della scarica mortale gridò: "Viva l'Italia!".
 
 
    A.U. del "Lucca" Nazzarri Danilo
    A Voghera il col. Fiorentini fu portato in una gabbia collocata al centro della piazza cittadina ed esposto al ludibrio della folla inferocita.
    Era una gabbia di legno stretta e bassa nella quale poteva stare solo seduto.
    Ai lati della stessa vi erano dei bastoni lunghi ed appuntiti a "disposizione" della folla per colpirlo attraverso le sbarre.
    Assistetti a scene così esecrabili che erano paragonabili solo alle violenze contro gli "untori" ricordate da Manzoni nella "colonna infame" e ai "roghi" della "Santa Inquisizione".
    Nessuna autorità o rappresentante morale di quella pacifica e nobile cittadina lombarda intervenne o poté intervenire contro quello spettacolo di violenza degradante della persona umana qualunque sia stata la sua colpa.
 
 
    Un'ausiliaria di Salice Terme
    Fiorentini era sulla piazza del paese circondato da una plebaglia che lo offendeva, sputacchiava, malmenava.
    Una "povera bagascia" lo colpì alla testa con il tacco dello zoccolo. Il sangue gli usciva abbondantemente e gli rigava il volto.
    Nonostante tutto il colonnello non curava asciugarsi.
    Stava rigido sull'attenti come a una cerimonia militare.
    Iniziava il suo martirio.
    Partecipò all'aggressione la sorella del partigiano Alberto Pirematti.
 
 
    "Guerra Civile in Italia" di G. Pisano
    L'azione della "Sicherheit", di cui era responsabile prima Alfieri (ucciso dai partigiani) poi Fiorentini impedì ai partigiani di attestarsi sulla statale Piacenza-Voghera-Tortona e li costrinse a concentrarsi su Varzi e la Val Staffora.
    La statale aveva una vitale importanza militare perché collegava il Piemonte con l'Emilia.
    La "Sicherheit" (sicurezza) dipendeva direttamente dai tedeschi. Era composta di circa cento militi. Ebbe molti caduti. Dura fu la sua azione per mantenere l'ordine nelle precarie condizioni in cui era costretta ad operare.
 
 
    A.U. del "Lucca" Antonio Cintoli
    Il col. Fiorentini chiuso in una gabbia, in un'altra furono poste le due figlie minorenni tutte nude, lo fecero girare per le strade di Pavia.
    Dalle parti e dietro le gabbie c'erano i cosiddetti "liberatori", cioé i partigiani della Stella Rossa della Divisione Garibaldina.
    Sai cosa facevano? Si divertivano con dei bastoni a punta a punzecchiare sia lui che le povere ragazze nelle varie parti del corpo.
    Ciò l'ho potuto vedere in quanto, proprio in quel giorno, mi portarono, come prigioniero di guerra, dall'ospedale Borromeo di Pavia al Castello Sforzesco della predetta città.
    Quindi ho visto con i miei occhi, strada facendo, quello spettacolo vergognoso, disumano sotto tutti gli aspetti, degno solo di coloro che, macchiandosi di ogni infamia, si proclamavano "liberatori".
 
 
LOTTE E SANGUE DELLA REPUBBLICA SOCIALE NELL'OLTREPO' PAVESE Vasco Nannini 1998 Edito in proprio Per ricevere il volume richiederlo a: Vasco Nannini (tel 050-44059), Vicolo delle conce 25, PISA

ODIO SENZA SPERANZA da I GIORNI DELL’ODIO
AA.VV.
 
 
    Il Presidente della Repubblica, solennizzando con la sua partecipazione il cinquantenario della insurrezione partigiana vorrebbe significare l'unità nazionale stessa dinanzi a quegli eventi.
    Anche al cronista più superficiale, per non dire allo storico, appare evidente la contraddizione. Come può celebrarsi, quale fatto di unità nazionale, l'epilogo di una guerra civile?
    Nella risposta a questo interrogativo si evidenze l'attualità di ricerca di questo nostro lavoro.
    Cinquant'anni sono passati dalla tragica primavera italiana del 1945 e sembrano ormai un tempo sufficiente, se non per affermare verità storiche per lo meno per ricercarle. Decine di opere editoriali sono venute alla luce in questo periodo per rievocare eventi storici; ma di quale storia si tratta, se, celebrando una guerra civile, si ignorano, si vogliono ignorare le ragioni, i contenuti ideali, presenti anche nella parte perdente, perché, per logica e per natura, quelle ragioni e quei contenuti sono insiti in tutti gli atti umani, in ogni momento della storia dell'umanità?
    Ci si compiace, e si ritiene che questo possa avere validità storica, di indicare gli sconfitti della guerra civile puramente e semplicemente come “turpe nemico”, come il “servo del tedesco invasore”, così finendo per rendere agiografiche, stucchevolmente retoriche, tutte le rievocazioni delle gesta dei vincitori.
    Benedetto Croce ha scritto che la storia può essere redatta soltanto da uomini di parte, ma è pur vero che il convincimento dello storico non deve prescindere dalla verità storica per consentire al lettore di partecipare col proprio soggettivo convincimento alla visione soggettiva dello storico. Altrimenti, non si dà luogo a procedere, e la ricerca di una verità obiettiva, sofferta e serena “super partes” resta un sogno confinato nel mondo delle speranze. Al di là di ogni intenzione di ricercare noi la verità storica per stabilire cosa furono in effetti la resistenza italiana e l'epilogo del fascismo italiano, questo articolo vuole essere semplicemente la cronaca degli ultimi giorni della guerra civile in Italia. In quei giorni si evidenze una carica d'odio, nell'Italia del Nord, che non trova giustificazione negli eventi che videro, da una parte il trionfo della resistenza nel momento in cui gli anglo-americani risolvevano vittoriosamente il conflitto con la Germania e la Repubblica Sociale Italiana, dall'altra, la rassegnazione alla sconfitta di quegli italiani che avevano ritenuto di dover scegliere sul fronte opposto la loro collocazione politica ed ideale dopo la spaccatura dell'8 settembre 1943.
    La carica d'odio che si volle allora innescare potrebbe trovare la sua giustificazione in un evento rivoluzionario.
    La storia dell'umanità, infatti, è ricca di eventi rivoluzionari, che acquistano validità storica nel sangue e, a volte, nell'esaltazione di quel macabro battesimo.
    Ma evento rivoluzionario significa svolta radicale nella storia di una società, di una nazione, di un popolo. A questo punto non può la ricerca della verità storica non chiedersi se dalla guerra civile scaturì una rivoluzione che possa in qualche modo giustificare il bagno di sangue che seguì, e rappresentò la sola realtà storica della primavera italiana del 1945.
    Non v'è dubbio, se la storia è scienza, che una delle sue equazioni definitive è quella del rapporto tra causa ed effetto.
    Il rapporto tra causa-effetto si esprime nella logica di un risultato che abbia il suo presupposto nelle azioni che lo promuovono.
    Insomma, se vi fu un'azione rivoluzionaria, se vi fu una tensione rivoluzionaria, vi deve essere stato un risultato rivoluzionario, un mutamento essenziale nella struttura politica e sociale della nazione. Sono 50 anni ormai che gli storiografi istituzionalizzati del regime sono alla ricerca degli ideali della resistenza, quali si manifestarono e culminarono nelle stragi fratricide della primavera '45.
    A giustificare la crisi delle istituzioni, oggi si parla di infedeltà ai valori della resistenza. La realtà vera, odierna, della crisi delle istituzioni è la crisi della società italiana del post fascismo, cioè l'anacronistico restaurazione delle strutture sociali e istituzionali prefasciste.
    Una vera e propria restaurazione di istituzioni basate sulla degenerazione partitocratica, nel quadro di una società capitalistica, perseverante nei suoi squilibri territoriali, nelle sue ingiustizie sociali.
    Il nostro organismo statale continua ad essere condizionato dalle clientele, dagli interessi di parte, dalle sopraffazione dei singoli e dei gruppi contrari ad ogni visuale di interessi generali e nazionali. Questa era la realtà della società italiana pre fascista che causò, in termini storici, l'avvento del fascismo.
    E allora, se nulla è cambiato nelle istituzioni politiche e nell'apparato statale dell'Italia post fascista, dov'è la svolta rivoluzionaria che può in qualche modo giustificare il bagno di sangue del periodo liberatorio e post liberatorio?
    L'odio rivoluzionario è I 'odio che si accompagna alla speranza.
    Là l'odio che deturpa l'uomo nella fase rivoluzionaria ma che lo riscatta nel desiderio di una società nuova, migliore, più giusta e più umana della precedente.
    Invece l'odio che fu innescato in Italia nell'aprile del '45, dato che nessuna svolta radicale ne scaturì, fu tragico odio senza speranza.
    E allora la ricerca storica ci aiuta a capire il movente dei fatti verificatisi oltre 50 anni fa e soprattutto la struttura umana di coloro che vollero quel bagno di sangue. Non per ribadire la condanna dei persecutori, né per beatificare le vittime, ma per dare un contributo, sia pure modesto, alla ricerca della verità.
    Alla fine del mese di marzo del 1945, le armate rosse hanno ormai superato il fiume Oder, l'ultima linea di resistenza della Germania nazista.
    Scompare, praticamente, in termini di rilevanza bellica, l'esercito tedesco ad oriente.
    In coincidenza con questi eventi, resa della Rhur ad occidente. L'incalzare ormai inarrestabile delle armate anglo-americane, annuncia prossimo il crollo del Terzo Reich.
    E' in questo quadro che si schiude la scena dell'ultimo atto della guerra sul fronte italiano. La vittoria anglo-americana in Italia è corollario alla sconfitta della Germania in Europa e ciò puntualmente si verifica nei primi giorni del mese di aprile.
    Cadono i contrafforti della linea gotica, inizia l'azione d'aggiramento dalla sponda adriatica al cuore dell'Emilia, cedono le ultime resistenze tedesche e italiane in Garfagnana e sul versante tirrenico.
    Forse ci si illude che sia ancora possibile riorganizzare una linea di resistenza sul Po, ma il 21 aprile l'occupazione di Bologna decreta la fine di ogni organizzata resistenza italotedesca anche sul fronte italiano.
    Gli eventi bellici, da quel punto e da quel momento, sono nel susseguirsi di episodi di sistematica ritirata, nello straripare di armate anglo-americane nell'Italia del Nord, consistono in una pura e semplice operazione di occupazione militare.
    Questo epilogo sul fronte italiano ha avuto il suo presupposto nella assoluta supremazia dei mezzi alleati su quelli dell'apparato militare tedesco, scarsamente sorretto dallo sforzo militare che la Repubblica Sociale era riuscita a realizzare.
    E' in questo quadro che si inseriscono gli eventi della cosiddetta insurrezione partigiana. Cosa fu l'insurrezione partigiana nei limiti di un'effettiva visualizzazione storica è lapidariamente descritto dal Comandante Supremo Alleato, Maresciallo Alexander, che cosi pubblicava nella “London Gazett” nel giugno 1950: “Vi fu, beninteso, l'insurrezione del 25 aprile '45; ma ciò avvenne dopo che gli eserciti tedeschi erano stati distrutti in battaglia a sud del Po, dopo che essi avevano intavolato trattative per la resa e appena una settimana prima della loro formale capitolazione finale».
    Per una attenta analisi di quei giorni occorre valutare la realtà del movimento di resistenza nell'Italia del Nord dagli ultimi mesi del 1944 al febbraio del 1945.
Nell'estate del 1944 si era consolidato il fronte italiano, una volta arrestatasi l'offensiva alleata a sud dell'Emilia, fra l'Adriatico e il Tirreno, da Rimini a La Spezia.
    Ebbero allora inizio le grandi azioni antipartigiane condotte dalle formazioni fasciste e dai reparti italo-tedeschi col risultato di eliminare, come entità operative, pressoché tutti i focolai partigiani di montagna. In quel momento il Comando interalleato del Mediterraneo rivolge precisi ordini alla resistenza italiana di sciogliersi, disimpegnarsi, nelle montagne e nelle città.
    Cosa era rimasto nell'inverno '44 e sino al febbraio '45 di tutto l'apparato di guerriglia partigiana, sono gli stessi storici resistenziali a precisarlo: sopravviveva soltanto la capacità organizzativa del Partito comunista, essendo questo riuscito a salvare sia i quadri delle formazioni partigiane garibaldine, che quelli delle Sap e dei Gap, vere e proprie organizzazioni terroristiche di città. Nel febbraio dei 1945, nel momento in cui l'epilogo del conflitto è prevedibile come imminente, in Italia si configura una nuova strategia del partito comunista. Esso persegue lo scopo predominante, se non esclusivo, di proiettare il nostro Paese nell'area dell'impero sovietico.
    Dopo l'inverno del '44 sono i quadri della resistenza comunista l'unica realtà operativa storicamente accertabile.
    In montagna sono le formazioni garibaldine del partito comunista che si riorganizzano, mentre in città riesplode il terrorismo delle Sap e dei Gap. Oggi gli storiografi dell'antifascismo parlano anche di sopravvissute e restaurate altre forze politiche: storicamente di costoro non esiste traccia.
    Nel tentativo di storicizzare fatti insignificanti o addirittura inesistenti, nella rievocazione si è caduti nel ridicolo.
    L'obiettivo delle formazioni partigiane di montagna e di città, in quel momento, non è quello di coadiuvare in qualche modo lo sforzo militare degli Alleati per sconfiggere i tedeschi e i fascisti, ma, ripetiamo, quello di assicurare al partito comunista il controllo . dei grandi centri urbani dell'Italia settentrionale e il conseguente insediamento dei comunisti nei posti di potere più importanti. In questa visuale il partito comunista si colloca al di sopra e al di fuori e, se necessario, contro lo stesso Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Con la direttiva numero 15 i comunisti nel febbraio-marzo 1945 stabiliscono quale obiettivo dei triumviratí provinciali e regionali della resistenza l'insurrezione partigiana.
    Ed è proprio per questo scopo che i triumvirati sono stati organizzati. Pietro Secchia così riferisce: “Per coordinare la lotta politica delle masse lavoratrici .... fin dal giugno 1944 il PCI aveva provveduto a costituire in ogni regione occupata dai tedeschi un triumvirato insurrezionale composto da tre dirigenti le organizzazioni politiche e militari. Questi triunmvirati, pur di assicurare la vittoria all'insurrezione nazionale, dovevano operare anche nel caso in cui gli organismi unitari (i CLN) al momento decisivo non avessero funzionato o fossero stati paralizzati da dissensi interni».
    E’ il PCI che fa tattica e strategia, nell'ultima fase della guerra civile, rifiutando qualsiasi conclusione del conflitto che prescinda dall'insurrezione partigiana. Si rifiuta qualsiasi ipotesi di trasmissione indolore dei poteri tra la Repubblica Sociale Italiana e il governo del Sud, tra la Repubblica Sociale Italiana e lo stesso Comitato di Liberazione Alta Italia.
    Su eventuali vocazioni alla pacificazione nazionale che potessero sorgere dall'una o dall'altra parte, dopo tanto sangue fraterno versato, i comunisti sono spietati e irremovibili. Ecco come si esprime il più autorevole compagno del nord, Luigi Longo: “Nessun lasciapassare, nessun ponte d'oro a chi se ne va, ma guerra di sterminio ... “.  E ancora Longo che così redarguisce i pacifisti del CLN: . Per il successore di Togliatti alla guida del PCI, in quel momento il disegno da attuare è chiaro: “Muoiano della morte dei traditori i turpi fascisti e i plutocrati profittatori”.
    Ora non si parla di sterminio dei soli fascisti, ma anche dei “plutocrati profittatori”. E il partito comunista che ritiene necessario che la cerchia degli eliminandi debba essere allargata a tutti quelli che in qualche modo potranno contrastare la prospettiva politica post bellica del comunismo.
    Alla direttiva numero 15 sopra ricordata, il 10 aprile fa seguito la direttiva insurrezionale numero 16, ovvero quanto occorreva fosse fatto “per predisporre e scatenare vere e proprie azioni insurrezionali”
    E proprio Pietro Secchia a dichiarare la necessità di: “respingere decisamente tutte le manovre tendenti a evitare e far fallire l’insurrezione nazionale (comunista)”
Pietro Secchia, alter ego di Luigi Longo, nel fomentare e dirigere la guerra civile in Alta Italia.
    Per insurrezione nazionale e per manovre ad essa contrarie deve intendersi l'estremo tentativo di pacificazione effettuato dall'una e dall'altra parte per far sì che la guerra civile avesse a concludersi con la sconfitta dei tedeschi e la vittoria degli alleati.
    Gli storici seri hanno riconosciuto, venti e più anni or sono, su “Civiltà Cattolica” che “Sul piano storico la resistenza si compendia in un'Italia piena di memorie tragiche e grandi ma che fu lotta fratricida che ha lasciato strascichi dolorosi negli animi degli italiani, una ferita non ancora rimarginata: una guerra civile combattuta con spaventosa violenza che ha portato le parti in lotta - partigiani, tedeschi e fascisti - ad efferatezze, ad eccidi, a rappresaglie e vendette terribili».
    Ci si domanda oggi perché quella terribile lotta fratricida dovesse proseguire dopo la fine della guerra e sfociare in un ulteriore bagno di sangue conseguente alla insurrezione partigiana?
    Ovvia la risposta. E' quella a cui abbiamo accennato poco fa.
    Il partito comunista allora maestro di reapolitik, sapeva che non vi era spazio in Italia per una svolta rivoluzionaria. Aveva ben appreso dal suo padrone e ispiratore moscovita che lo schieramento internazionale dopo l'incontro di Yalta e gli accordi tra russi, americani e inglesi, non dava spazio in Italia ad un evento che consentisse la trasformazione della società italiana in senso Comunista.
    Ma se non era possibile al PCI la conquista tout court del potere, lo scopo poteva essere raggiunto più tardi, previa la eliminazione fisica del maggior numero possibile di fascisti o comunque anticomunisti, la liberazione, cioè, della piazza da ogni seria opposizione al neo regime filosovietico.
    Ed è su questo presupposto che si verifica la mattanza della primavera '45, che è l'unico concreto risultato dell'insurrezione partigiana del 25 aprile. Eliminazione fisica dei fascisti allora, mistificazione storica poi, per spezzare sul piano psicologico il retaggio di valori ideali che le generazioni future avrebbero potuto acquisire dalla parte perdente.
    Ed ecco che, emblematicamente, la storia impostata dai comunisti e subita dai loro avversari tende ad evidenziare la fine di Benito Mussolini in termini che ne riducano e perfino ne stravolgano l'immagine e il peso storico. A sostegno delle nostre tesi vediamo cosa accadde, per esempio, a Genova, a Milano e a Torino.
    Nella riunione del partito comunista che ebbe luogo a Milano nei giorni 11 e 12 marzo 1945, Longo e Secchia impartivano direttiva secondo quanto indicava Ercole Ercoli (Palmiro Togliatti), da Roma: una decisa opposizione a qualsiasi tentativo, che potesse essere accettato dalle altre componenti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di addivenire a “tregue”, a “patti di non aggressione”. Opposizione assoluta, quindi, all'alternativa dell'eliminazione fisica dei fascisti e degli anticomunisti, alla conclusione indolore di una guerra civile già cosi dolorosamente vissuta.
    Queste direttiva per l'insurrezione a qualsiasi costo, sono consacrate nel messaggio inviato sempre da Ercole Ercoli alle 16,30 dei 13 aprile al compagno Gallo (Luigi Longo). In questo messaggio Togliatti riconferma che il disegno politico della insurrezione deve essere attuato anche in contrasto o addirittura in opposizione alle direttiva del comandante americano Clark, il quale aveva in pratica ordinato alle formazioni partigiane di attendere che le grandi città fossero occupate dagli Alleati.
    Testualmente il 13 aprile alle ore 16,30 Togliatti comunicava a Longo:
    “Per il compagno Gallo. Il nuovo ordine del giorno del Generale Clark è stato emanato senza l'accordo né del governo, né nostro. Tale ordine del giorno non corrisponde agli interessi del popolo. E' nostro interesse vitale che il popolo si sollevi in un’unica lotta per la distruzione dei nazifascisti prima della venuta degli Alleati. Questo è indispensabile specialmente nelle grandi città come Milano, Torino, Genova, ecc., che noi dobbiamo fare il possibile per liberare con le nostre forze ed epurare integralmente dai fascisti».
    Ecco quindi, dedotto dal testo originale, il leit motiv, lo scopo politico dell'atto insurrezionale che si vuol attuare: “epurare integralmente dai fascisti”.
    Tutto questo è la prova del nove che si opererà in tal senso. Sta per cominciare la giostra della insurrezione che ha per obiettivo la strage dei vinti.
    Dall'altra parte, dalla parte fascista, qual è l'orientamento, quali sono i propositi in quei giorni di tragica vigilia?
    La principale preoccupazione di tutti, dal capo ai gregari, era quella di conservare la struttura dello Stato Repubblicano fino al passaggio dei poteri allo Stato Italiano, che rappresentava legalitariamente la parte vincente. Questa sembrava a Benito Mussolini la naturale conclusione degli eventi. Ci si illudeva che la conclusione del conflitto in Europa potesse coincidere con la fine della guerra civile in Italia.
    Ci si illudeva che dopo i giorni dell'odio si potesse guardare oltre, perché a quegli eventi sopravvivesse il popolo italiano tutto essendo figli di una stessa terra.
    Questo è il senso delle trattative di resa offerte da Mussolini, tramite il figlio Vittorio agli alleati e tramite il Cardinale Schuster al CLNAI. Anzi in quel periodo è da registrare un dissenso tra la linea del Governo della RSI e il PFR. Il Partito ipotizza la Valtellina quale “ultimo ridotto” o qualsiasi analoga soluzione che consenta di finire in bellezza. Il Governo Repubblicano, invece, intende che il suo compito precipuo, il suo ultimo atto, sia quello di attuare un trapasso di poteri in termini di solidarietà nazionale.
    E se la ricerca storica tende veramente ad individuare il sentimento della maggioranza degli italiani in quel momento, al di là e al di sopra delle fazioni, scoprirà che questa ansia di solidarietà nazionale è l'autentica aspirazione del popolo italiano. Né poteva essere altrimenti dopo venti mesi di odio e di sangue.
    Antonio Gambino nella sua storia del dopoguerra, scrive che certamente l'insurrezione partigiana fu caratterizzata “dalla mancanza di un'iniziativa popolare nella caduta del fascismo”. Mancanza di inizíativa popolare vuoi dire, in buona sostanza, che il fatto insurrezionale non era sentito, perché non era giustificabile, perché troppe lacrime erano già state versate.
    Ed ecco l'affannarsi organizzativo del partito comunista per l'insurrezione, una insurrezione a freddo promossa da calcolo politico, non certamente da volontà di popolo.
    Non gli alleati anglo-americani, dice il Partito Comunista, devono liberare le grandi città del nord, ma l'insurrezione partigiana.
    E gli eventi, nella realtà storica, dimostrarono poi che le grandi città non furono liberate da azioni insurrezionali, ma occupate dalle formazioni comuniste nel momento in cui le forze fasciste e tedesche le abbandonarono, sotto l'incalzare delle colonne anglo-americane dilaganti ormai, oltre la linea del Po.
    Genova, Milano, Torino: l'atto insurrezionale si verifica con 24 ore, al massimo con 48 ore di anticipo sull'arrivo delle truppe alleate.
    E l'insurrezione, chiamiamola cosi, facilitò almeno l'evolversi della situazione militare?
    No di certo, se è vero che la guerra non ha più storia del momento in cui l'esercito rinunciò ad ogni resistenza sulla linea del Po.
    E la linea del Po significa 22 aprile, mentre il timido inizio del primo fatto insurrezionale - quello di Genova - risale al 24 aprile.
    Addirittura il 24 aprile è la vigilia della formale capitolazione militare tedesca agli alleati presso il Quartier Generale di Caserta.
    Si potrebbe obiettare che si combatté a Genova, a Milano, a Torino, nel Veneto sino al 23 maggio, ma se combattimenti vi furono essi ebbero luogo quando le colonne fasciste o tedesche in ritirata vennero attaccate o quando il soldato già rassegnato alla sconfitta, per istinto di conservazione si batte contro chi mette in pericolo la sua sopravvivenza.
    Ma chiarificatore della necessità per il PCI, di precedere di almeno 24-48 ore l'arrivo degli alleati, è il documento relativo alla seduta del 14 marzo 1945 del Comitato di Liberazione Nazionale Lombardia. Si legge testualmente nel resoconto verbale (vedi Documenti inediti a cura di Pietro Secchia, Feltrinelli 1971) che in quella seduta si puntualizzò “per quanto riguarda l'opera di giustizia, il comando alleato si disinteressa di quanto verrà fatto ai fascisti nel periodo che precederà l'assunzione dei potere da parte dell'AMG”. Cos'è l'assunzione del potere da parte dell'AMG, Governo militare alleato? E’ l’occupazione delle città da parte delle truppe alleate.
    Ecco allora la necessità, nel disegno politico comunista di anticipare di 24 ore almeno l'occupazione alleata, onde consentire ai comunisti, appunto, la pulizia etnica sulla pelle dei fascisti veri e presunti. Ed è Palmiro Togliatti che dà conferma di tutto questo. Nel discorso del 19 maggio 1945 a Milano affermerà: - “L'obiettivo di liberare l'Italia dai traditori fascisti è stato raggiunto anche se non tutto quello che avrebbe dovuto è stato possibile farlo” - Ma, per buona pace del compagno Togliatti, siamo solo al 19 maggio; quello che non si era potuto fare sino a quel punto verrà fatto nei mesi seguenti dalle volanti rosse e da quel simulacro di giustizia che furono le Corti di Assise straordinarie. E' Togliatti, alias Ercoli, il fuoriuscito arrivato dalla Russia ai primi del 1944 nell'Italia del sud, che nell'ultimo atto diviene il coordinatore feroce ed implacabile della giustizia comunista.
    E Togliatti di queste cose, abbiamo detto, se ne intendeva. Aveva già fatto esperienza di -cinico curatore delle più atroci epurazioni staliniane negli anni precedenti.
    Nessuna sorpresa, pertanto, se l'architetto delle “radiose giornate” fu il Migliore.
    Gli ultimi atti politici delle autorità di Governo della Repubblica Sociale Italiana e del vertice del Partito Fascista Repubblicano si inquadrano nella situazione, che appare ormai globalmente compromessa con l'occupazione di Bologna da parte degli Alleati, tra il 20 e il 21 aprile; Bologna, che per 24 ore almeno fu alla totale mercé delle bande partigiane comuniste prima che il grosso delle armate alleate, dopo le avanguardie, entrasse in città. Le notizie che il vertice della RSI riceve da Bologna fanno apparire evidente che ormai non ha più senso la speranza di trapasso indolore dei poteri, una tregua per concordare la resa del Governo della RSI e delle forze armate fasciste Repubblicane, con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.
    A Bologna è già in corso la strage indiscriminata dei fascisti, o meglio degli anticomunisti, così come la vuole il Partito Comunista Italiano. La giustizia partigiana che non dà spazio ad alcun anelito di pacificazione.
    Lo storico inglese Kirkpatrik cosi testimonia: “Il giorno 23 aprile dappertutto era in corso la caccia ai fascisti, che vengono uccisi senza pietà”. 24 aprile: a Milano le autorità della RSI e Benito Mussolini hanno ormai netta la percezione, per quanto apprendono dai territori appena occupati, che la grande strage è incominciata.
    La giornata del 25 aprile vede a Milano l'ultimo tentativo operato al massimo livello per un trapasso di poteri dalla Repubblica Sociale Italiana al CLNAI quale rappresentante del governo del Sud.
    Un tentativo teso ad evitare altri spargimenti di sangue, altre inutili stragi.
    E Mussolini che si reca alI’Arcivescovado e alla presenza dei Card. Schuster incontra alcuni dei principali esponenti del Comitato di Liberazione Alta Italia.
    La risposta è chiara. Nessuna trattativa, nessun passaggio di poteri, nessuna tregua, nessuna capitolazione secondo le leggi dell'umana convivenza, ma soltanto resa incondizionata. Mussolini, prima ancora di recarsi all'Arcivescovado forse prevedeva questo rifiuto, ma ciò che soprattutto lo convinse dell'inutilità del tentativo fu l'assenza all'incontro del responsabile del partito comunista italiano.
    Mussolini aveva elementi certi per sapere che l'unica seria e bene organizzata formazione partigiana di montagna e di città era quella del partito comunista; la sua assenza, quindi, era di per sé eloquente. Mussolini lascia l'Arcivescovado alle ore 17 circa del 25 aprile e prende atto che nulla servirà ad evitare l'ultimo atto della tragedia.
    Così nell'accomiatarsi dai suoi fedeli alla prefettura di Milano, egli li scioglie dal giuramento di fedeltà. E' ancora l'inglese Kirkpatrik che dichiara: “Mussolini era risoluto a non essere causa di uno spargimento di sangue, non voleva più chiedere fedeltà ai suoi seguaci, eppure il suo istinto rifiutava di arrendersi.. Mussolini decise di allontanarsi da Como. Si preoccupava, come si era preoccupato a Milano” di non coinvolgere la città nella battaglia... ».
    Alla decisione di cui sopra Mussolini aggiunge una frase: Gli ordini vi verranno da Pavolini». E gli ordini saranno quelli di allontanare dai grandi centri urbani le formazioni fasciste ancora in armi, non tanto nell'illusorio disegno di giungere la Valtellina, quanto nella speranza di evitare scontri sanguinosi ed eliminare in tal modo ogni pretesto di insurrezione da parte dei comunisti.
    Si dovevano abbandonare i centri urbani e seguire direttrici di avanzata degli angloamericani per arrendersi a loro secondo le tradizioni militari. Così si erano comportate le autorità fasciste di Bologna, e avevano abbandonato con gli ultimi reparti armati la città. Ne derivò che la giustizia partigiana, a Bologna, si esercitò subito dopo sugli inermi, gli umili, sulle famiglie dei fascisti e sugli esponenti della borghesia non fascista, anch'essa obiettivo del furore insurrezionale, perché ritenuta anticomunista.
    Anche da Genova le formazioni fasciste in armi si erano in gran parte allontanate e quelle rimaste con i presidi tedeschi attendevano, in stato di tregua, l'ormai imminente arrivo delle armate anglo-americane. Il 18 aprile il fronte occidentale italo-tedesco, che dalla Garfagnana raggiunge il mar Tirreno a La Spezia, si dissolve. Le truppe tedesche e quelle dell'armata di Graziani, anziché retrocedere lungo la tortuosa via Aurelia, attraversano il passo della Cisa percorrendo la prevista direttrice di ripiegamento lungo la linea del Pò.
    Questo dà la certezza al Comitato di Liberazione ligure di poter agire liberamente senza cioè il pericolo dello scontro con divisioni tedesche e repubblicane, ma questo significa anche che aperta sarà la strada ad una rapida avanzata degli americani lungo l'Aurelia verso Genova. Non resta quindi che attendere le 48 ore necessarie perché gli alleati giungano tranquillamente in porto. E a questo punto che il CLN di Genova decide di proclamare l'insurrezione contro i tedeschi e contro i fascisti, giustificandola con la volontà di salvaguardare gli impianti portuali dalle distruzioni tedesche, dal momento che necessità di altro genere non ne esistevano. Ora è chiaro, che eventuali distruzioni di impianti e infrastrutture industriali i tedeschi potevano effettuare solo per rappresaglia contro attacchi partigiani, ed è altrettanto chiaro che l'insurrezione, semmai, rischiava di provocare proprio la temuta distruzione delle opere portuali da parte dei tedeschi. Mentre il 23 aprile il CLN di Genova proclamava l'insurrezione per il giorno dopo, quello stesso giorno le autorità fasciste e tedesche decidevano, sulla base delle notizie che provenivano dal fronte e degli ordini ricevuti dal segretario del PFR Pavolini, di iniziare il ripiegamento verso la Lombardia. Ciò avveniva nella notte tra il 23 e il 24 aprile.
    Senza alcun disturbo da parte partigiana, le colonne fasciste al comando del Federale Falappa, precedute da mezzi corazzati, si attestavano all'imbocco dell'autostrada per Milano che immediatamente iniziavano a percorrere.
    Le colonne germaniche preferirono invece dirigersi verso la Val Polcevera, anch'esse senza incontrare alcun ostacolo. A Genova erano rimaste, agli ordini del generale Meinhold, truppe di guarnigione, comandi, uffici e reparti di retrovia. Militarmente efficienti erano soltanto i presidi dei forti e del porto, alle dirette dipendenze del Com.te di Marina Max Berningaus.
    I punti strategici del porto erano altresì presidiati da potenti reparti della Xa MAS al comando della Medaglia d'Oro Arillo.
    Italiani e tedeschi intendevano attendere in armi l'arrivo degli americani.
    Ciò si annunciava più celere del previsto dato che lo stesso 24 aprile si era arreso il 46° corpo di armata corazzato tedesco incaricato di proteggere la linea di copertura del fronte Liguria.
    E' a questo punto che scatta l'insurrezione di Genova.
    Ma è la stessa storiografia partigiana che ammette testualmente: “Il 24 Genova insorgeva, prima tra le città italiane e il 25 aprile l'insurrezione si estese ovunque, ma non fu un evento trionfale; i partigiani erano pochi e le superstiti forze del nemico rappresentavano ancora un'incognita.”
    La prima e unica azione partigiana di un certo rilievo fu l'attacco in piazza De Ferraris ad una colonna di camions in buona parte occupati da funzionari civili e paramilitari tedeschi.
    La colonna tedesca fu distrutta, onde la reazione delle unità germaniche.
    Tedeschi e fascisti dai punti presidiati incominciarono a rispondere all'attacco partigiano. E' in questa fase dell'insurrezione a qualsiasi costo che si rileva il contrasto delle autorità antifascista e della Curia con il partito comunista, al quale si era affiancato l'entusiastico “personale appoggio del democristiano Taviani”, ex littore (per chi non lo sapesse). Curia e autorità antifascista volevano che altro sangue non si spargesse a Genova, ma il PCI, naturalmente, era di contrario avviso.
    Ciò nonostante a qualche accordo si era pervenuti, se è vero che il centro della città il 25 aprile fu controllato dalla unità di Pubblica Sicurezza del tenente Pisano, col consenso tacito dei membri non comunisti del Comitato di Liberazione Nazionale, della Curia e dello stesso Comando tedesco e fascista. Ed è perciò contro il tenente Pisano e i suoi uomini, contro la loro azione pacificatrice, che si scagliano i partigiani.
    Certamente la funzione di questo corpo “franco”, diciamo così, di PS, era quella di impedire che le bande comuniste assumessero il controllo della città, ma era anche vero che esso avrebbe potuto benissimo garantire l'ordine pubblico sino all'arrivo delle forze alleate. Frattanto le formazioni garibaldine dall'entroterra nella tarda serata del 25 aprile cominciano ad entrare in città. 
    Il loro primo obiettivo è naturalmente la Pubblica Sicurezza del tenente Pisano. Questa unità, in breve, è costretta ad asserragliarsi nel grattacielo, a intavolare trattative con il comando partigiano per essere infine proditoriamente aggredita e sterminata insieme col suo comandante fatto precipitare dalla finestra del 12° piano.
    Così si esprime, Meinhold nelle sue memorie: “Nel corso del 24 aprile io avevo preso la decisione di mettermi a pied'arm. Mi avevano determinato a ciò i rapporti recapitatimi sull'avanzata degli americani: costoro, a sud, avevano già superato La Spezia, a nord i loro mezzi corazzati erano a Stradella” quindi quasi alle nostre spalle. Un esame preciso della situazione rilevò che se anche fossimo riusciti ad aprirci un varco e raggiungere la Pianura Padana, qui lo scontro con i carri armati nemici avrebbe decimato le nostre truppe. Quanto poco in tutto ciò considerassimo i partigiani, risulta da quanto detto in precedenza».
    E il 25 aprile alle ore 9 il Gen. Meinhold si arrende al CLN. A determinare la resa, dunque, non fu l'insurrezione partigiana, ristretta in una modesta area, ma la valutazione della situazione militare del fronte anti alleato, insostenibile per i tedeschi.
    Per altro, l'accordo stipulato da Meinhold con il CLN non veniva riconosciuto dalle truppe comandate da Berningaus e nemmeno dai combattenti della X' MAS.
    Ciò detto, non va nemmeno taciuto il fatto che tanto poco aveva inciso l'insurrezione partigiana sulla reale situazione militare, che, nonostante l'annuncio via radio alle ore 9 del giorno 26, della conquista partigiana di Genova alle ore 14 dello stesso giorno, unità navali inglesi dovettero cannoneggiare le postazioni tedesche e fasciste.
    L'unico risultato concreto delI’intervento “garibaldino” fu l'entrata in funzione dei tribunali del popolo fin dal giorno 25. Ne furono insediati all'albergo dei Poveri, al Bristol, all'albergo Crespi, a Sestri Ponente e a Pegli. Quanto auspicavano i comunisti era stato raggiunto. A volere, per la verità storica, questi democratici tribunali, non furono a Genova soltanto i comunisti. Ascoltiamo, in proposito, Giancarlo Pajetta nella sua intervista pubblicata da “Rinascita” il 28 maggio 1966. “Al Nord, nel CLN, c'era gente che si dichiarava più estremista di noi. Taviani non andava tanto per il sottile sulle misure da prendere contro i fascisti”.
    E Taviani, poveretto, aveva grandissimo bisogno di dimostrare il suo entusiasmo insurrezionale a fianco dei comunisti. Come avrebbe potuto altrimenti farsi perdonare i suoi trascorsi littori? Ricrearsi quella verginità antifascista di cui oggi va orgoglioso? Far dimenticare il suo estremismo in camicia nera manifestato a Trieste e a Bologna nel 1938? E quanto aveva scritto nel giugno '36 su “Vita e Pensiero”: “L'Italia oggi in Africa Orientale ha il suo impero perché attua i principi mussoliniani del vivere pericolosamente, del credere, obbedire, combattere”? E' proprio Taviani che annuncia alla Radio di Genova la mattina del 26 aprile la vittoria partigiana. Ma quanto essa fosse superflua e poco meritata lo dimostrarono il 26 sera le avanguardie della divisione americana Bufalo occupando Nervi.
    E' a questo punto che effettivamente ogni resistenza tedesca e fascista cessò e che tutte le unità si arresero e si consegnarono agli alleati.
    Questo accadeva agli uomini in divisa nelle stesse. ore in cui la caccia al fascista inerme si fa spietata, più o meno come cinque giorni prima era accaduto a Bologna.
    I giustiziati di Genova in quelle giornate, per concorde valutazione delle due parti, superarono i 2.000.
    E fra essi molti furono gli episodi di inaudita ferocia, quali ad esempio, le sevizie cui furono sottoposte, prima di essere trucidate, Ester Oliviere e Alidina Parrini, il prof. Giuseppe Eboli, i fascisti Brunetti e Tonganelli, e le vittime delle stragi di Torriglia e Masone. Il podestà fascista di Genova, Silvio Parodi, esempio di esemplare moderazione nei mesi della guerra civile, veniva gettato vivo in una fornace; il fratello dell'ex segretario del Partito Nazionale Fascista Vidussoni veniva assassinato solo perché tale.
    Fra gli episodi più atroci di quelle ore sono le torture inflitte a Mario Arzeno, il cui padre Tito è poi obbligato dai partigiani a scaraventarlo, ancora vivo, dall'arcata del porto di Cornigliano.
    E' il partito comunista che affida al CLN genovese il compito di raccogliere i cadaveri, i quali sono tanti che è necessario impartire l'ordine di adibire le vetture tramviarie alla loro traslazione.
    Per rimuovere i cadaveri dei fascisti prelevati nelle carceri di Marassi e poi fucilati, furono impiegati carri dell'assistenza vaticana, giunti al seguito delle truppe alleate. Il resto della Liguria in quei giorni cercò di non essere da meno dei capoluogo. Centinaia furono i fascisti soppressi, così che ai primi giorni di maggio - è lo storico antifascista Simiani che lo dice - si erano raggiunte le 3.000 esecuzioni. -
    Perché non ricordare le infamie consumate contro le diciassettenni Ramella e Bosia, soppresse a Imperia in quanto infermiere nei reparti militari della RSI?
    Ad Alassio il cap. Corticelli della Guardia Nazionale Repubblicana fu crocifisso su un tavolo di osteria; ad Albenga, a Romeo Alamandola e a Cesare Lamposone, prima di essere fucilati, furono tagliati naso e orecchie.
    A quegli assassinii, a quelle stragi in quei giorni terribili seguiranno poi gli assassinii legati dalle sentenze delle Corti d'Assise straordinarie.
    A Genova sembrava ormai che il “vento del Nord” non dovesse cessare mai.
    Altrettanto era successo a Bologna, appena occupata dagli alleati, per mano dei boia di Stalin, Longo, Togliatti, ecc. 
    A Milano, che si volle capitale morale della insurrezione partigiana del Nord Italia, il 24 e 25 aprile scorrono senza che vi sia traccia di alcun fatto, di alcuna azione insurrezionale. Il Governo della RSI e il suo Capo continuarono in quei giorni ad esercitare la loro funzione in assoluta libertà d'azione, tant'è che Mussolini mantenne il proprio Quartier Generale nella Prefettura in corso Monforte, sino al momento in cui decise di lasciare la città per Corno. Ciò avvenne alle ore 20 del 25 aprile 1945. E' indubitato che sino a quell'ora i fascisti erano liberi nei loro movimenti sia a Milano che nella provincia. Qua e là si registra, il giorno 25 aprile, qualche scaramuccia con i posti di blocco fascisti della periferia, e un appena accennato tentativo di occupazione della Pirelli e di qualche industria nella zona di Sesto San Giovanni vede un ritorno offensivo dei reparti della RSI che riprendono l'immediato controllo della situazione.
    La storiografia della resistenza fissa nel pomeriggio del 25 aprile, con l'esplosione “dirompente” nella notte tra il 25 e il 26 aprile l'inizio del moto insurrezionale in Milano. Questo contraddice con la realtà storica, se si considera che, in esecuzione degli ordini impartiti da Pavolini, oltre 5.000 fascisti, con centinaia di automezzi, decine di mezzi corazzati e blindati poterono schierarsi, nelle prime ore del mattino del 26 aprile sul centralissimo itinerario che va da piazza Dante al Castello Sforzesco.
    La lunga colonna, ordinata e inquadrata, raggiunse Corno senza alcun intralcio, a meno che non si voglia considerare tale qualche sporadica sparatoria, a distanza, all'altezza delle ultime case della periferia.
    A Milano a volere l'insurrezione furono solo i comunisti, il resto del CLN era disposto ad accettare un pacifico trapasso dei poteri.
    Il CLN di Milano sapeva bene che non c'era alcuna intenzione insurrezionale nelle masse popolari, se si esclude l'apparato comunista di guerriglia e se vogliamo credere, come noi crediamo, nelle parole del card. Schuster pubblicate nel libro Gli ultimi giorni del regime: e contrari, minacciando una frattura nella compagine del CLN, i comunisti».
    Ed i comunisti, a Milano, non erano in grado di promuovere alcunché di insurrezionale né contro i fascisti né contro i tedeschi.
    L'unico atto rilevante, che si può tutt'al più definire una pura e semplice assunzione di poteri, fu l'occupazione fra il 25 e il 26 aprile della Prefettura in corso Monforte, dopo che se ne era andato l'ultimo fascista.
    A compierla non furono né i comunisti né altri, ma i 500 uomini della Guardia di Finanza comandati e inquadrati dal Colonnello Malgeri, in esecuzione di un ordine del Gen. Cadorna, rappresentante del Governo legalitario del sud presso il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. E del Gen. Cadorna i comunisti non erano per nulla soddisfatti, per la ragione che lo stesso, anche in ossequio a precise disposizioni comunicategli dal Comando militare alleato, non assecondava i propositi insurrezionali dei comunisti.
    Sui rapporti tra Cadorna e i comunisti, ad esempio, riferisce lo storico inglese Collier: !"». A Milano anche il giorno 26 scorre in sporadici e limitatissimi scontri tra i partigiani, che si moltiplicano e spuntano anche tra persone che sino allora mai si erano interessate di resistenza, e piccoli gruppi di fascisti rimasti in città ad attendere l'arrivo degli anglo-americani. Ma abbiamo già chiarito che il partito comunista per insurrezione intendeva ben altra cosa. Ad eseguire la quale occorrevano comunisti di provata fede e di cieca obbedienza: costoro, infatti, si presentarono con le brigate garibaldine di Moscatelli.
    E' Pietro Secchia che ce ne informa nel suo libro Aldo dice 26 x 1: “Soltanto alle ore 17 del 27 aprile, la prima colonna di partigiani, seguita poi da altre, faceva il suo ingresso a Milano”.
    Mussolini e i fascisti l'avevano lasciata da più di 36 ore.
    E più avanti: .
    Ma nemmeno le brigate rosse, cui la storiografia resistenziale assegna tanti eroismi fecero molto, se è ancora Secchia a scrivere: “Comandi tedeschi asserragliati in edifici trasformati in fortezze, difesi da reticolati... non cessarono di sparare, dicendo che si sarebbero arresi agli Alleati ... “.
    E cosi fu.
    Ma l'arrivo delle brigate comuniste a Milano significò ben altro; ce lo riferisce lo storico antifascista Simiani: “Ogni paese, ogni più piccolo borgo voleva la sua brigata. Il nemico era sbaragliato, ma i volontari continuavano ad affluire a centinaia di migliaia e gli ultimi arrivati, gli eroi della sesta giornata si dimostrarono i più accaniti, i più violenti, i più presuntuosi. Si giustiziava dovunque, senza discriminazione; e intanto agli occhi degli esperti non sfuggiva l'incetta di armi da parte di individui misteriosi che poi scomparivano. Questa incetta, dal momento che le armi non dovevano servire più e dopo il chiaro ordine di consegna delle medesime, a quale scopo mirava? Non c'era paese o località dove non si desse la caccia più spietata al "republichino".
    Anche se si trattava di un povero diavolo che, o per timore o per bisogno, aveva semplicemente aderito al crollato regime senza aver mai fatto nulla di male».
    E per esemplificare il loro stile, non si può dimenticare l'uccisione a freddo del cieco di guerra Medaglia d'Oro Carlo Borsani.
    Questi doveva essere colpito dalla giustizia comunista, perché la sua predicazione d'amore contro l'odio poteva rappresentare un punto di riferimento per le future generazioni. Così, colpiti alle spalle, furono assassinati valorosi combattenti, quale l'asso dell'Aviazione Repubblicana Maggiore Adriano Visconti, conte di Modrone. Egli della guerra civile sapeva solo per sentito dire, si era battuto fino all'ultimo nei cieli di Milano e delle città del nord per difenderle dai bombardamenti terroristici alleati, ma anche lui doveva essere eliminato secondo la logica comunista perché il suo esempio di dedizione alla Patria poteva essere un punto di riferimento per i giovani. 
    A Milano la giustizia comunista colpiva anche i partigiani che, avendo combattuto sul serio, non credevano nella necessità dell'insurrezione; fra costoro ricordiamo Federico Barbiano, giustiziato misteriosamente, insieme a cinque suoi compagni, da un plotone di esecuzione delle brigate garibaldine nel carcere di San Vittore il 28 aprile.
    Vengono eliminati anche i non fascisti, quegli uomini che avrebbero potuto in qualche modo contrastare il comunismo. E' così che viene assassinato a Sesto San Giovanni Ugo Gobbato, dirigente dell'Alfa Romeo, uomo venuto dalla “gavetta” e che per di più poteva ascrivere a suo merito di aver salvato gli impianti dalla distruzione e centinaia di operai dall'internamento in Germania. Sempre a Sesto San Giovanni cadevano i dirigenti industriali Soliveri, Grazioli, Scotoli e Mazzoli della Breda, tutti responsabili di anticomunismo. Se vogliamo definire insurrezionali questi fatti, essi sicuramente lo furono conforme al credo comunista. Ed è ancora Togliatti che lo precisa, come si legge nel libro di Marcella e Maurizio Ferrara “Conversando con Togliatti”: “La direttiva della insurrezione nazionale fu concretamente data e spiegata a tutto il popolo dai comunisti”.
    Con la stessa logica e nelle stesse forme si giustiziava a Como, a Legnano, a Brescia, a Pavia, a Piacenza, a Sondrio, dove interi reparti della RSI, regolarmente arresisi e perciò prigionieri di guerra, furono proditoriamente massacrati dopo la consegna delle armi. Come i comunisti volevano, l'odio e la vendetta si ispiravano ad un preordinato disegno, anche se ad esso si tentava di applicare la maschera dello sdegno popolare.
    Cosi si comprende lo scempio di piazzale Loreto che risultò lo scenario meglio curato dalla regia comunista; infatti, doveva servire da monito a tutti coloro che nutrissero idee e progetti antitetici, appunto, a quelli del partito comunista. Ecco come ne riferisce ancora lo storico Kirkpatrik: “29 aprile. Un furgone portò i cadaveri dei giustiziati in piazzale Loreto... furono appesi per i piedi alle traverse di una stazione di servizio ed esposti al pubblico ludibrio... erano trascorsi appena quattro mesi da quando Mussolini era stato acclamato nelle strade di Milano.»
    Nei giorni che seguirono, gli Alleati finalmente assunsero il controllo della città e di tutta la Lombardia, ma ciò nonostante la strage continuò.
    Per alcuni mesi ancora la stampa del Nord quotidianamente registrerà il ritrovamento di uno o più corpi di “giustiziati” nelle strade e nei borghi. Fu adottata la dizione “cadavere di fascista o presunto tale”.
    Dovranno passare parecchi anni prima che autorevoli rappresentati della resistenza abbiano il coraggio di criticare quanto avvenne.
    Torino e il Piemonte furono il terzo degli epicentri del disegno insurrezionale del PCI.
    Già tra il 18 e il 20 aprile Torino era stata teatro di un tentativo di sciopero pre-insurrezionale, che, come è storicamente accertato, fallì e registrò soltanto una parziale astensione dal lavoro, tant'è che il Comando Fascista della Piazza e le Autorità provinciali della RSI mantennero facilmente il controllo della città e i collegamenti con Milano e le altre province del Nord, fino al 26 aprile.
    La presenza di consistenti forze tedesche a Torino e il dislocamento delle divisioni “Littorio” e “Monterosa” e della Guardia Nazionale Repubblicana a protezione della frontiera occidentale contro il pericolo della avanzata gollista verso il Piemonte, aveva sconsigliato ogni velleità insurrezionale.
    E di conseguenza anche i comunisti nulla osarono in quella vigilia.
    E' il 27 Aprile che anche a Torino le autorità della RSI tentano una consegna pacifica dei poteri al Comitato di Liberazione Nazionale.
    Così riferisce Pietro Secchia: “Verso mezzogiorno, il Comitato militare per la resistenza in Piemonte riceve una prima proposta dei fascisti che intendevano trattare per il trapasso dei poteri. Le proposte sono respinte; ai fascisti il CLN risponde che non intende concordare alcun passaggio di poteri».
    Dinanzi a questa presa di posizione che rivelava un proposito insurrezionale ad ogni costo, le unità della RSI si riunirono la sera in prefettura e il comandante della piazza colonnello della GNR Cabras decise di ritirare dalla città tutte le unità militari efficienti, costituendo nella notte tra il 27 e il 28 aprile una colonna autocarrata di oltre 20.000 uomini, protetta da reparti corazzati e blindati della “Leonessa” di cui assunse personalmente il comando.
    La colonna lasciò Torino, superò agevolmente ogni tentativo di blocco e si diresse verso la Valtellina. Solo il 30 aprile, quando ormai gli eventi bellici si erano risolti, Cabras si arrendeva alle avanguardie americane incontrate lungo l'itinerario.
    A Torino erano rimasti circa 2.000 volontari delle Brigate Nere, al comando dell'ispettore federale Giuseppe Solaro, per svolgere una azione di copertura alla partenza della colonna Cabras e il recupero di eventuali sbandati in ripiegamento dalle valli viciniori.
    E' su questi volontari, sulle famiglie dei fascisti, sugli umili gregari, sugli anticomunisti, che si scatenò la rabbia partigiana.
    Ma anche a Torino gli ultimi fascisti si comportarono molto diversamente da quello che il mito resistenziale vuol far credere.
    Racconta Del Boca nel libro Ricordi di un partigiano semplice: “I fascisti aprirono il portone e vennero fuori con due carri armati, credendo di farci paura. Ma i nostri addetti ai bazooka li lasciarono avvicinare, poi una grande fiammata e tutto fu distrutto. Visto che eravamo ben armati, alcuni fascisti cercarono scampo vestendosi in borghese, altri si arresero, i più scalmanati resistettero gridando "Viva il Duce" e gridando morirono».
    E ancora si legge: "Da per tutto si vedevano partigiani, i fascisti sembravano morti. Nelle vie si incontravano spesso i loro corpi crivellati di colpi". E poi: "La sparatoria continuò finché arrivarono dei rinforzi che salirono nell'alloggio e riuscirono a farli prigionieri. Erano due giovani delle Brigate Nere in divisa. Sul berretto avevano disegnato un teschio e con aria spavalda gridavano 'Viva il Duce'. Li portammo al comando e li fucilammo".
    E così dell'ultimo episodio: “Il fascista alzò le mani gettando l'arma. Tranquillamente ci seguì e senza una parola si diresse verso un monumento. Si aggiustò la divisa e il berretto e aspettò la morte. Era da ammirare. Moriva per il suo ideale”.
    Le storie partigiane per oltre 40 anni hanno cercato di denigrare gli uomini di Solaro, definendoli “franchi tiratori”. Strana gente questa che, in divisa combatteva, e con la divisa moriva in postazione o fucilata!
    Ma era necessario definirli “franchi tiratori” per giustificare la “giustizia partigiana” immediatamente entrata in azione.
    Giustizia partigiana, che sterminò i prigionieri, ignorando ogni legge civile e militare. E che fosse strana quella giustizia traspare dagli atti ufficiali della resistenza piemontese, come si legge nella “Storia del CLN regionale”, edito da Feltrinelli.
    “La giustizia dei patrioti agiva rapidamente... anche se l'inevitabile esplodere dei risentimenti e delle vendette colpiva talvolta con fatale crudeltà qualche vittima, le cui colpe erano infime”.
    In tal modo, fino al 5 maggio, quando finalmente intervennero, armi alla mano, gli Alleati per porre termine a tanta infamia, nelle vie e nei sobborghi di Torino caddero 4.000 fascisti o “presunti tali”.
    Per la loro somiglianza al colonnello Cabras, tre innocenti furono assassinati.
    Morirono in quei giorni per vendette personali dirigenti e tecnici delle fabbriche invisi ai comunisti, morirono tanti innocenti per le sentenze emesse dai Tribunali del Popolo, dei quali il più attivo fu quello insediato nel carcere giudiziario di Torino, donde, per festeggiare il I° maggio, vennero prelevati e fucilati in Corso Vittorio Emanuele, angolo Corso Inghilterra, 17 fascisti. Le donne a Torino e in Piemonte pagarono un alto prezzo la “colpa” di essere madri, sorelle, spose, fidanzate di fascisti.
    A decine i corpi delle Ausiliarie seviziate e massacrate, vennero raccolti sul greto dei Po, tra il 1° e il 5 maggio.
    Nel cuneense, nel novarese, a Saluzzo, caddero a centinaia gli appartenenti ai reparti della RSI, alpini, paracadutisti, camicie nere, che, credendo nella buona fede degli avversari, avevano sottoscritto formale atto di resa e consegnato le armi.
    Dinanzi a tanto scempio, anche la coscienza di alcuni partigiani si ribella. E' il caso del comandante della 105a brigata Alberto Polidori il quale, al Rondò della Furca, tenta inutilmente, a rischio della propria vita, di salvare 5 giovani Ausiliarie.
    Il martirio di Giuseppe Solaro trascinato appeso alla corda su un autocarro per le strade di Torino, che guarda con volto sereno i carnefici, è un atto di fede e di amore che onora in quella ora tristissima il Piemonte e l'Italia.
    Ora, non sarebbe seria la ricerca storica, se non si ricordasse, a parziale conforto di tante angosce, l'esempio di civiltà che diedero le genti della Val d'Aosta. In Val d'Aosta non un solo fascista fu giustiziato; anzi, i partigiani non comunisti ebbero cura di garantire salva la vita ai soldati della RSI che a loro si erano arresi. In questo modo gli autentici combattenti della libertà, interpretarono il sentimento popolare di gratitudine verso quei soldati che sulle montagne, ai confini della Francia, avevano difeso il Piemonte dall'occupazione dei gollisti francesi, preceduti dai marocchini.
    Chi avrebbe altrimenti salvato quelle povere donne dalle turpi violenze impartite alle ciociare un anno prima?
    Quella primavera del '45 sembrava non dovesse finire mai. A mano a mano che le città passavano sotto il controllo alleato e poi italiano, si tentava di ricostituire una parvenza di autorità per cercare di contrastare il disegno, ormai evidente, della epurazione fisica ad oltranza voluta dal PCI.
    Se qualcosa si riusciva a fare nelle più importanti città, col disarmo imposto dalle truppe anglo-americane, non altrettanto accadeva nelle province. Ancora nella prima decade di giugno, la polizia partigiana, tutta inquadrata da elementi di fiducia dei PCI, proseguì la sua azione insurrezionale. E' di quei primi giorni la vicenda atroce delle corriere, dei mezzi di trasporto di fortuna, che riportavano dalle province del Nord alle loro residenze quanti erano stati sorpresi dagli eventi bellici.
    Corriere e mezzi di fortuna, che venivano intercettati dalla polizia partigiana al momento dell'attraversamento del Po o poco oltre.
    Una volta fermati e perquisiti, i passeggeri, che credevano di essere sulla via della salvezza, finivano nelle caserme partigiane, vere bolge dantesche. Basterebbe ricordare quanto avvenne a Concordia, nel modenese, dove nel '71, l'indagine giudiziaria, condotta dalla Procura della Repubblica di Bologna, che prosciolse per amnistia i responsabili, accertò che il maggiore problema che avevano dovuto risolvere gli “eroi della insurrezione partigiana”, fu quello di coprire con gli altoparlanti ad altissimo volume le urla dei prigionieri torturati prima di essere consegnati al plotone di esecuzione.
    Lo scoprimento di fosse comuni con i resti di centinaia di persone prima seviziate e poi soppresse continua tuttora nei cosiddetti “triangoli della morte”. Dei quali, uno dei più tragici, è quello circostante il ponte della Bastia, all'incrocio delle province di Ravenna, Bologna e Ferrara, dove per anni i “compagni” hanno ucciso e nascosto le loro vittime.
    Gli orrori delle “radiose giornate” (tali furono definite dal “Migliore”) in un secondo tempo, si cercò di legalizzare con le sentenze delle Corti di Assise straordinarie.
    Poco o nulla importava che le testimonianze fossero, o no, attendibili e le accuse più o meno fondate; fatto sta che il risultato era invariabilmente la condanna a morte. Con le eccezioni a conferma della regola.
    A conclusione di questa sintetica analisi è bene ricordare che dove non si era riusciti con l'eliminazione fisica si è cercato di ottenere con la più spudorata e asfissiante mistificazione storica del fascismo, presentato agli ignari come un concentrato di idiozia e di violenza, quasi che i più illustri antifascisti, a babbo morto, non siano stati, nei cosiddetti “anni del consenso” i più fieri apostoli del fascismo.
    Ma la storia, grazie a Dio, è fatale giustiziera e la verità, quando che sia, verrà alla luce.
    Fu quello delle “radiose giornate” un odio senza speranza, proprio perché si esercitò sulla pelle dei vinti, padri, figli, spose, fratelli che fossero.
    La Spagna franchista, vent'anni dopo la fine della guerra civile eresse e consacrò al culto degli spagnoli, il monumento della “Valle dei Caduti”, dove fraternamente sono raccolti, dimenticati gli anni del furore, i caduti dell'una e dell'altra parte.
    L'Italia della storiografia resistenziale, ancora alla fine degli anni '90 ha scoperto fosse comuni con i miseri resti dei vinti.
    Questo disprezzo per i Morti, tanta empietà nei comportamenti, emblematicamente consegna alla storia uomini e classi dirigenti che la storia fatalmente condannerà, o nel più benevolo dei casi, ignorerà. Ricordate, al riguardo, la lettera inviata 38 anni fa da Alberto Giovannini alla tredicenne figlia Marzia?
    Ora vi proponiamo ciò che Cesare Pavese, pubblicò nel 1949:
    "Ho visto i nostri morti, ma ho visto anche i morti sconosciuti, quelli del nemico, quelli "repubblichini" sono questi che mi hanno svegliato qualcosa... Il nemico, anche vinto, è qualcuno, e dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione. Al posto di un nemico nostro potremmo essere noi e non ci sarebbe differenza. Per questo ogni guerra è una guerra civile. E dico, se vogliamo ritornare a sperare e vivere, pietà, pietà anche per il nemico ucciso".
 
 
I GIORNI DELL’ODIO AA..VV. Ciarrapico Editore.(Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)

D'ACCORDO PRESIDENTE, CHE GIUSTIZIA SIA ANCHE AD OMEGNA
Gianni Cerutti 
 
 
    Tra le molte cose dette dal Presidente della Repubblica, ovvero il superpartes presidente di tutti gli italiani, lungo i due giorni trascorsi fra la gente della sua terra, di una, in particolare, tratteremo in queste note, lasciando le restanti ad altri spazi di questo giornale.
    Ad Omegna, nel citare la lettera della figlia di un fucilato alle Fosse Ardeatine con lo zio, lettera con la quale la donna - cinquant'anni fa una bambina - pur rivivendo il dolore di quei giorni, invocava perdono (per il capitano delle SS. Priebke, che l'Italia vorrebbe processare), Scalfaro ha detto di essere rimasto senza fiato, ma di avere risposto a quella signora dicendole che pur ammirando la sua grandezza d'animo rimaneva del parere che la giustizia dovesse fare la sua parte...
    Dette ad Omegna, quelle parole sono suonate con stridore orrendo per coloro che ancora ricordano i tanti massacrati dei partigiani, uomini, donne e giovani, colpevoli, soltanto di essere rimasti fedeli a un ideale, quando non totalmente estranei ad ogni ideologia, ma odiati da miserabili invidiosi vestiti da «patrioti». Probabilmente, di questi, Scalfaro non ricorda nulla o se ne è dimenticato per non dispiacere ai suoi partigiani. Così, per analogia, ci permettiamo ricordargli il massacro della famiglia Trimboli, una delle tante, di Omegna, appunto, città in cui il Presidente di tutti ha ricordato con accenti commossi la carezza alla figlia di quel padre destinato alle Fosse Ardeatine, massacro di 335 estranei per ritorsione alla strage dei 33 tedeschi fatti saltare da Rosario Bentivegna e Carla Capponi, premiati questi, a fine guerra, con tanto di medaglia d'oro per non avere trovato il coraggio di dichiararsi autori dell'attentato per il quale tutte le mura di Roma sapevano che per ogni tedesco ucciso avrebbero pagato dieci italiani (legge, tremenda legge di guerra!).
    Ebbene, Presidente che sostiene saggiamente l'inesorabilità della giustizia, questa benedetta giustizia da lei invocata, faccia il suo corso anche ad Omegna, dove, nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1945, una squadraccia di partigiani penetrò con l'inganno nella bella casa di Via Novara 136. Prelevò Raffaele Trimboli, la moglie Clorinda Benassai e la figlia Gianna di 21 anni, caricando sulle proprie e sulle spalle dei «prelevati» tutto ciò che avevano potuto razziare di prezioso. Sacchi di bottino.
    Ebbene, Presidente, lei che si è commosso al ricordo di quella carezza data alla figlioletta dal padre martire a Roma, non dovrebbe rimanere insensibile all'ultimo abbraccio dato a Francesca, 14 anni, ad Antonietta, 13, a Romolo Trimboli, 9 anni, da papà Raffaele, da mamma Clorinda e dalla sorella Gianna, prima di essere strappati ai loro figlioletti in quella notte di terrore di cinquant'anni fa.
    Lei, Presidente di tutti gli italiani, dovrebbe anche per quei piccoli orfani, ora cresciuti nel dolore e nell'emarginazione, invocare il regolare corso della giustizia e non rimanere senza fiato.
    In quella notte, mentre i tre piccoli annaspavano nella disperazione e nella paura, papà, mamma e Gianna Trimboli venivano torturati, violentati e annegati, si dice ancora vivi, dentro un telo di paracadute, in fondo al lago in località Punta di Crabbia. Sul posto, qualche giorno dopo, i tre orfanelli trovavano indumenti intimi della mamma e della sorella. La loro colpa? Di avere avuto simpatie «fasciste» tanto da avere dato alla Guardia Nazionale un figlio, Renzo, morto qualche mese prima in un incidente stradale sull'autostrada presso Torino.
    Di che colore erano quei partigiani, signor Presidente? Le basti un particolare: in quella notte di violenze inaudite e di crimini che gridano vendetta al cospetto di Dio, frase biblica -Presidente-, fu rapinata anche una radio «Guglielmo Marconi», che le sorelline scampate (si fa per dire) alla tragedia di quella notte di gennaio di cinquant'anni fa, recuperarono poi, a guerra finita, coraggiosissimamente, a fatica e non senza rischio nella sede del partito comunista omegnese, assieme con la minaccia che se avessero rivelato a qualcuno il particolare, avrebbero fatto la stessa fine dei genitori. Signor Presidente, commosso e senza fiato d'accordo, ma che la giustizia faccia il suo corso. Poi, sempre per amore di giustizia, nessuno le chiederà di tornare a Omegna. Nessun sventolio di bandiere, nessun raduno, niente abbracci, niente fiori.
    Dopo che la giustizia avrà fatto il suo corso, sono certo che quando le capiterà di passare lungo il Lago d'Orta - cimitero senza lapidi di tanti altri martiri - ricorderà la celebrazione dei suoi partigiani e forse le sovverrà il richiamo alla giustizia. Forse non avrà il tempo per sostare nei pressi della «Punta di Crabbia», ma per una preghiera, sì, lo voglio sperare. Almeno in sostituzione di un cenno di conforto a coloro che in silenzio e nell'emarginazione tutte le notti hanno rivissuto il buio di quella notte. Per cinquant'anni. Con la sola colpa di essere orfani di tre martiri.
 
 
Il Nord 19 Settembre 1995

DOMUS